Sogno e libertà. Il surrealismo per Benjamin

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ombreIn Ombre corte (Einaudi, Torino 1993) è contenuto il breve saggio dal titolo Il surrealismo (cfr. pp. 253-268), in cui Walter Benjamin prende soprattutto di mira i risvolti politici degli scritti dei surrealisti. Dapprima, tali risvolti sono poco espliciti. Alla fine i surrealisti approdano al comunismo.

Nella suddetta prima fase l’ebbrezza (molto importante per i surrealisti) è adialettica, conciliante, forse moralisticamente mistica. Faccio un esempio: la socialità entusiasma. In nome della simpatia faccio delle rinunce.

Nel saggio in esame Benjamin contrappone formule e vocaboli. Tale contrapposizione è riconducibile all’opposizione Hegel-Marx (il primo non viene esplicitamente citato; del secondo viene, ad esempio, menzionato il Manifesto).

E così, da un lato abbiamo il “concetto umanistico di libertà”, il “senso”, imprescindibilmente legato all’io, ovvero all’individualità. Benjamin ritiene che la prassi politica della sinistra borghese sia riconducibile alla “morale idealistica”, ovvero all’«ideale moralistico-umanistico di libertà del liberalismo», interamente fondata su “calcoli pragmatici”. A quest’ultimo è, in fondo, riconducibile anche “il materialismo metafisico di osservanza vogtiana e buchariniana”.

Dall’altro lato abbiamo la “Lingua” (di contro al “senso”), il “nichilismo rivoluzionario”, la “libertà spirituale radicale”, Bakunin, la libertà “anarchica”, Nietzsche, Rimbaud.

La dialettica implica il conflitto di tutto contro tutto. La sintesi concilia. L’io, l’individualità, corrisponde praticamente all’animalità, anche ad un’animalità addomesticata. Tipicamente umana è poi l’“ebbrezza” legata all’“esibizionismo morale” (la vanità).

Il peso della realtà è schiacciante. Il bisogno diviene tanto più opprimente, quanta più miseria viene a darsi al mondo. La morale, in quanto rinunciataria, è oppressione nei confronti di sé stessi. Vi è infine il fenomeno, tipicamente umano, del ruolo, dell’identità sociale. La contrapposizione più basilare concernente quest’ultima è nella distinzione tra chi ha il senso della realtà, e chi non lo ha, o ne ha meno. L’utilità rara e indispensabile sarà un valore, assieme alla ricchezza. Vi è il conformismo, consistente soprattutto in disagi attenuabili tramite i consumi. Il tutto è molto materiale, nel senso di mondano, terreno.

L’ebbrezza è propria di chi sogna, è “godimento sensibile”. Quando la realtà individuale, da cui può derivare anche l’addomesticamento etico, tende a venir meno, e con essa, lo stato di “veglia”, la durezza della realtà si affievolisce notevolmente. Probabilmente, per Benjamin l’ebbrezza consiste nel passaggio (brusco?) da una sensazione – in quanto tale – spiacevole, al suo massimo alleggerimento, il che può produrre dell’esultanza. E così, se abbiamo una preoccupazione infondata, e qualcuno (un amico, ad esempio) ce ne dimostra l’infondatezza, ci alleggeriamo, proviamo un felice sollievo che ci mette repentinamente di buon umore.

Benjamin afferma che è propria dei surrealisti un’“illuminazione profana” di “ispirazione materialistica”. Il materialismo è quello dialettico, propugnato da Marx. La materia ha carattere “radicalmente, assolutamente immaginativo”: ad essa “introduce l’illuminazione profana”. Ed è proprio la dialettica che fa della materia qualcosa di rappresentativo. La dialettica è cioè nichilismo. Da egoisti, assestiamo colpi all’intera alterità, la quale per noi non ha valore. Si tratta allora di assestare un colpo – il più possibile mortale – anche a noi stessi: «solo allora la realtà ha superato se stessa tanto quanto esige il manifesto comunista».

A proposito di ciò che si sta dicendo, Benjamin sostiene che «Stavrogin è un surrealista ante litteram. Nessuno come lui ha capito quanto sia falsa la convinzione piccolo-borghese che il bene è ispirato da Dio […], mentre il male deriverebbe interamente dalla nostra spontaneità, nel male noi saremmo interamente autonomi e indipendenti». Per quel che riguarda il protagonista dei Demoni: «Nella stessa infamia egli ha visto […] qualcosa che ci è stato proposto, se non imposto come compito, e cioè lo considera allo stesso modo che il borghese idealista considera la virtù».

Non è escluso che per Benjamin sia possibile la sintesi dialettica, con annesso progresso. La cosa non sarebbe tuttavia auspicabile. L’illuminazione (quasi in senso buddista), ci rivela che il «pensiero […] è un narcotico per eccellenza». E così, ad esempio, coloro che menziona come “poeti socialdemocratici”, sarebbero caratterizzati da un “ottimismo senza coscienza” (è gente dormiente, non-illuminata). «Il surrealismo si è sempre più avvicinato» al comunismo, dunque. «E ciò significa pessimismo su tutta la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia […] nella sorte della libertà, […] sfiducia verso ogni forma d’intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli». I surrealisti propugnano tutt’altro che una “politica poetica”. I non-marxisti in genere, sognano, non riconoscendo le asprezze della realtà: «E infatti, che cos’è il programma dei partiti borghesi? Una brutta poesia […]. Il socialista vede quell’“avvenire più bello dei nostri figli e nipoti” nel fatto che tutti agiscono “come se fossero angeli”, e ciascuno possiede “come se fosse ricco”, e ognuno vive “come se fosse libero”. Di angeli, ricchezza, libertà non c’è la minima traccia. Sono soltanto immagini». Del resto il loro sotterraneo realismo ha del patologico: la rivoluzione per Benjamin è terapeutica, anzi la sola terapia possibile.

One response to “Sogno e libertà. Il surrealismo per Benjamin

  1. Invero questo scartafaccio
    avrebbe potuto rispondere al nome di Due
    pesi, due misure. Così, tanto per naturale reazione chimica a quel
    doppiopesismo – primogenito figlio scemo del Conformismo più becero – che
    ammorba noi tutti, alla stessa stregua dell’inesorabile coltre di smog sulle
    grandi città, senza distinzione alcuna.

    O con distinzioni che non fanno
    (quasi) testo.

    «Se Benjamin ebbe a dire che la
    storia è stata scritta finora dal punto di vista del vincitore e deve essere
    scritta da quello dei vinti […]»[1] sappiamo
    che la vittoria ha molti padri, e la sconfitta solo orfani.

    Già, il conformismo. Una parola –
    fateci caso – che è quasi scomparsa dal vocabolario del politicamente corretto.
    Epurata nei lager e nei gulag del politicamente scorretto. Gli
    eredi attuali dei Vopos (l’abbiamo
    forse cancellati dalla memoria politicamente corretta anche questi?) e quelli
    delle SS a guardia del mainstream
    progressista sorvegliano occhiuti ogni trasgressione. Quindi nessuno la
    pronuncia quasi più.

    Eppure essa ha goduto di una
    grande popolarità ai tempi della feroce rivolta contro la società borghese. Se
    si dovesse riassumere in uno slogan quanto mai apodittico cosa ha fondato e
    mosso le bordate della sovversione contro l’imperante quanto presuntamente
    falsa borghesia, si potrebbe dire: “A morte il conformismo”.

    O anche: “Facciamola finita con
    l’ipocrisia”.

    Quindi, se tanto mi dà tanto,
    oggi, a decenni di distanza da quegli accadimenti, visto l’imperante successo dei
    valori portanti di quella svolta,[2] i quali permeano il sociale occupando tutta la rosa dei venti, “elementi”
    quali la menzogna, l’inganno, la mistificazione, i due pesi due misure, dovrebbero essere scomparsi.

    Perlomeno dovrebbero essere ridotti
    a mal partito. Invece è graniticamente vero il contrario.

    Il conformismo e di conseguenza
    il doppiopesismo dei due pesi e due
    misure impera sovrano, e fa sempre di più scuola. Ha legioni, stuoli di
    ammiratori e di aficionado.

    Per amore del paradosso, io sono
    grato – in qualche modo – a Ricucci. Sì, proprio Stefano Ricucci, meglio noto
    come il capoccia dei furbetti del quartierino. Ricucci, difatti, fu messo in
    croce – al di là dei suoi misfatti reali – con la gogna mediatica più
    intransigente. Gli fu addirittura dedicata una satira da un settimanale en vogue dileggiandolo in quanto si
    abbuffava di pasta al forno, e mangiava a bocca aperta, mentre parlava. Lo si è
    deriso perché originario di un paesino di provincia, Zagarolo. Lo si accomunava
    con l’ignominioso filmuccio L’ultimo
    tango a Zagarolo, con Ciccio e
    Franco, parodia della perla progressista Ultimo tango a Parigi, firmata dalla vedette del cinema Bertolucci.

    Eppure nessuno si è mai azzardato
    ad accennare alla benché minima derisione all’indirizzo di Alain Danielou, vate
    cerimoniale, acclamato all’unanimità ai quattro venti, del culto del fallo,
    dell’eros e della Natura.

    Eppure Danielou stette proprio a
    Zagarolo per lunghi anni.

    Quindi due pesi e due misure?

    [1] Theodor W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, p. 146

    [2] pour cause un libro di Klaus Mann…

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