Video Web Armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere

Rogas edizioni, 2021
1 Comment

Video Web Armi è un libro sulla violenza – “dall’immaginario della violenza alla violenza del potere”, recita il sottotitolo –, ma più che sulla violenza come atto direi che ci parla della violenza come potenza, ovvero, potremmo dire, della violenza della violenza, cioè della sua capacità di celarsi manifestandosi attraverso l’immagine, che Alfieri definisce violenta nel suo stesso (im)porsi ai nostri sensi – anche senza necessariamente essere immagine della violenza (di guerra, per esempio) – che si ritrovano a dover elaborarne i significati.

Il paradosso alla base del pensiero dell’autore, e che si fa ancor più interessante poiché diviene garanzia stessa dell’esistenza e del mantenimento dell’autorità, del potere, dell’ordine, è che la violenza in atto, agente nella realtà, mina sé stessa e l’autorità che difende. Per fare un esempio: nessuno si stupisce che la polizia vada in giro armata, ma quando capita che un poliziotto usi davvero la pistola ne rimaniamo scioccati, come se si fosse rotto un incantesimo, l’incantesimo dello status quo, della realtà così com’è (così come è stata costruita da chi ha il potere). In quell’istante viene svelato tutto: l’ordine è garantito dalla violenza. E, in sostanza, dalle armi. Ma allora esistono altre possibilità? Forse questa non è la migliore, ma solo quella fatta spacciare per tale da chi (lo stato, il governo) ha le armi per difenderla.

E l’immaginario che ruolo ha in tutto questo? In pratica, ci spiega Alfieri, quello di darci la nostra dose di violenza quotidiana, sublimata, esperita passivamente (nell’immagine) o virtualmente (sul web), che altrimenti sfogheremmo in altro modo, probabilmente contro l’ordine costituito.

Il percorso dell’autore si articola in tre fasi: dalla violenza passiva (video) a quella agita virtualmente (il web, i social), fino a quella agita nella realtà (le armi). Ad affascinarmi più di tutte, forse a causa della mia passione per la popular culture, è la prima fase, quella dedicata al video, e in particolare ai videoclip musicali sbocciati negli anni Ottanta e diventati poi imprescindibili negli anni Novanta e Duemila per l’industria discografica e culturale. A spiccare è la figura di Michael Jackson, che non avevo mai considerato sotto questo punto di vista, ovvero come creatore di immagini di violenza, attraverso il corpo, la danza, le coreografie, che soddisfano e liberano le pulsioni di morte dello spettatore, per far rimanere tutto così com’è, per mantenere in vita l’incantesimo, come l’ho chiamato prima. Ma effettivamente è così. Alfieri fa l’esempio di Thriller, perfetto horror, e di Bad, una storia di delinquenza dove viene messa in scena la lotta danzata fra bene e male, ma potremmo citarne molti altri, in particolare mi vengono in mente Beat It e Smooth Criminal, celebri videoclip in cui la violenza è sempre protagonista. Ma anche le armi lo sono, coltelli o mitra che siano. Che tutto questo abbia a che fare col fatto che Michael Jackson sia stato il più importante personaggio dello spettacolo degli anni Ottanta?

Ma parlando di violenza e videoclip non può non venirmi in mente Smells Like Teen Spirit dei Nirvana. Se Thriller è il videoclip degli anni Ottanta, Smells Like Teen Spirit lo è dei Novanta, e caso vuole che anche questo sia intriso di violenza. È addirittura messa in atto una rivolta giovanile (in cui si è immedesimata la celebre Generazione X). E dopo aver letto il libro di Alfieri non posso non chiedermi se la potenza di questo video, e in generale dell’immaginario, abbia qualche connessione con l’ingloriosa fine della controcultura avvenuta proprio in quegli anni.

One response to “Video Web Armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere

  1. La controcultura cosiddetta tale fu la germinazione dell’attuale (a)società ciberneticamente controllata (in primis dal fascismo-samitario_ecologista-depopolazionista) quindi niente di inglorioso ma semplicemente un portato della sua generazione.
    La supposta aporia che si pone quando si abbraccia il lasso di tempo anni Sessanta e tempo coevo è bolsa, vacua, al pari di chi, vedi Paolo Morando, vuol scorgere nel rampantismo reaganiano-tatcheriano marcato anni Ottanta uno jato, una rottura di stampo involutivo rispetto al Sole dell’Avvenire intravisto, a detta dei più, nella controcultura sessantottina. Invero dai Sessanta ad oggidì, passando anche tramite gli anni Ottanta è tutto un continuum, senza alcuna soluzione di continuità. Tant’è vero che i capisaldi sessantottini (epidemia drogastica; pan-erotismo al massimo livello; scheisse-musik a 360°) hanno innervato tanto il capitalismo della seduzione (cfr. Michel Clouscard, Il capitalismo della seduzione ove Clouscard mostra il profondo legame tra la fine dell’utopia rivoluzionaria, la falsa coscienza della filosofia postmoderna e l’inizio del ribellismo estetico, senza fini politici e utile al capitalismo, descrivendo quel totalitarismo dolce che è il risultato della seduzione della società dei consumi: «l’intellettuale di sinistra accede al consumo mondano. Ne è il principale fruitore. Peggio ancora è diventato il maître à penser del mondo. Propone i modelli culturali del mondano. Non solo accede al consumo mondano, ma ne è uno dei padroni. Ha tutto il potere di prescrivere. E di codificare l’ordine dei desideri».) degli anni Ottanta quanto il regime totalitario coevo, fascio-sanitario a matrice cibernetica. Tant’è che il professore universitario John Markoff Most nel suo seminale What the Dormouse Said: How the Sixties Counterculture Shaped the Personal Computer Industry afferma che «[…] histories of the personal computer industry focus on technology or business. [this] landmark book is about the culture and consciousness behind the first PCs–the culture being counter- and the consciousness expanded, sometimes chemically. It’s a brilliant evocation of Stanford, California, in the 1960s and ’70s, where a group of visionaries set out to turn computers into a means for freeing minds and information. In these pages one encounters Ken Kesey and the phone hacker Cap’n Crunch, est and LSD, The Whole Earth Catalog and the Homebrew Computer Lab». Del resto il terabyte tycoon Oracle, non si chiama esattamente come la fanzine eponima californiana, “Oracle”? Certo che sì!

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.